Intitolazione giardino a ricordo di Felicita Ferrero
Mercoledì 25 ottobre alle ore 11.00 in corso Unione Sovietica angolo via Monteponi.
All'intitolazione, dopo i saluti delle autorità, intervengono Massimo L. Salvadori, Lorenzo Gianotti e Germana Cunioli Luraghi.
L'Istituto Salvemini, nel 2009, si è fatto promotore della richiesta di dedicare un giardino della Città di Torino a Felicita Ferrero.
L'appello è stato sottoscritto da 30 intellettuali torinesi e italiani e vede il suo compimento attraverso l'intitolazione di questo giardinetto.
Sulla targa vi sarà riportato 'Felicita Ferrero, combattente per la libertà'.
Felicita Ferrero
Torino, 31.12.1889 - 9.2.1984
Torinese di nascita, il padre è un operaio qualificato e la madre una pantalonaia della Torino operaia e socialista di inizio Novecento. Ultimata la scuola media inizia a lavorare dapprima come cucitrice poi come impiegata in officina mentre, la sera, studia lingue al Circolo Filologico.
La mobilitazione contro la guerra la spinge alla politica attiva nel sindacato e nei gruppi giovanili e femminili socialisti. Aderisce al Partito Comunista d’Italia, di cui è una delle fondatrici nel 1921, che la invia come delegata a Mosca, al Congresso dell’Internazionale giovanile.
Impegnata sui temi dell’emancipazione femminile è convinta che la lotta di classe non debba fare divisioni tra uomini e donne. Nella durissima vita di partito degli anni immediatamente successivi alla marcia su Roma, sempre più prossima alla clandestinità, matura un giudizio assai critico sul ruolo assegnato alle donne anche nel Partito Comunista.
Nel 1927 è condannata dal Tribunale Speciale a sei anni di carcere, da cui esce nel 1932, malata, e il partito clandestino, per curarla, la invia in Unione Sovietica. Dopo un breve soggiorno in sanatorio, lavora al Glavit (l’ufficio di censura della stampa estera) e a Radio Mosca. Sono gli anni del Grande Terrore staliniano che colpisce duramente anche tra le fila dell’emigrazione comunista italiana e sfiora anche lei che riesce a scampare al Gulag per mera fatalità.
Finita la guerra chiede ed ottiene di tornare in Italia, a Torino, dove lavora come segretaria di redazione e archivista a l’Unità. È qui che la coglie la notizia della repressione della rivolta ungherese del 1956 che la spinge, l’anno successivo, ad abbandonare il Partito e a ritirarsi in dignitosa riservatezza.
Nell’ultimo periodo della sua vita, restando fedele agli ideali del socialismo umanitario, si avvicina al movimento delle donne condividendone, pur settantenne, gli ideali e le lotte con lo slancio di sempre.
Si spegne in povertà nel febbraio del 1984 dopo aver pubblicato il romanzo autobiografico Il grande gelo e Un nocciolo di verità, il racconto delle memorie della sua vita.