Le mimose d'Ucraina

 
Sembra persino imbarazzante oggi, 8 marzo, accostare la lieve solarità delle mimose, simbolo ormai universale della “festa delle donne”, alla cupa tragedia che sta insanguinando l’Ucraina.
Eppure, mai come in guerra la condizione femminile si manifesta nella totalità delle sue storiche contraddizioni. Alle donne e alla loro secolare predeterminazione di ruoli personali e sociali, assegnati dalle gerarchie della storia come “naturali”, la guerra aggiunge il suo surplus di violenza e di orrore.
Ma non solo. Al ruolo arcaico e sempre rinnovato di preda “naturale”, scandito dalla stessa gerarchia di genere imposta dal ribaltamento valoriale di ogni conflitto armato, si aggiunge quello di non poter fare a meno di condividere la disperata difesa della condizione di madre e di ogni altro legame familiare e affettivo. Ma anche quello di cittadina, se del caso in armi, per battersi alla pari per la difesa di quei valori “civili” sanguinosamente straziati dalla guerra.
Per secoli l’ipocrisia di genere ha presentato la presunta eccezionalità di quella partecipazione in armi come “naturalmente” estranea, appunto, alla “natura” femminile. E ciò nonostante il fatto che la storia stessa in ogni tempo abbia conosciuto, in forme e misure diverse, quella realtà, sino alla contemporaneità delle lotte di liberazione nazionale e politica. Oggi la televisione ci mostra la quantità e la qualità di questa presenza femminile sulla tragica scena quotidiana della guerra in Ucraina. E non solo perché gli uomini stanno per lo più altrove a “combattere”, come se in una guerra e tanto più in quelle moderne, non si combattesse tutti e tutte in molti modi e circostanze.
Del resto, oggi la guerra investe la totalità dell’esistenza e delle sue relazioni e dunque ovunque e comunque si combatte. All’eroica resistenza delle donne ucraine, non possiamo non aggiungere oggi quella delle molte donne di Russia, giovani e anziane, in piazza pacificamente per protestare contro la vergognosa aggressione del proprio governo e subito arrestate, picchiate brutalmente e imprigionate da una polizia allineata con la selvaggia deriva ultranazionalista del proprio leader.
Quando una guerra ci è più prossima, anche soltanto territorialmente, non si può non sentirsene più vivamente toccati e interpellati. Anzi, tanto più in questo nostro tempo in cui, come già ammoniva l’indimenticabile Mordo Nahum ne La tregua di Primo Levi, guerra è sempre.
Sempre e in ogni luogo. E in ogni luogo le donne recano lo stigma della loro originalità, di intensità di coinvolgimento e di sofferenza.
Lo strazio quotidiano che questa guerra propone alla nostra vista e al nostro cuore ha spesso, troppo spesso, il viso di una donna.

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